“MI VEDO SULL’ALTARE COME SUL CALVARIO E NEL CENACOLO”

Intervista a S.E. Mons. Giovan Battista Pichierri nel 50° anniversario di ordinazione sacerdotale

 

Come spesso accade quando si intervista un sacerdote, si chiede sempre di fare riferimento al contesto familiare, ecclesiale e sociale dove poi è sorta la chiamata al sacerdozio.

Sono nato il 12 febbraio 1943 da Angelo e Maria Pasana Rossetti; quarto di sei figli: Ave, Vera, Antonio, Giovan Battista, Dante, Matilde. Papà era calzolaio, la mamma casalinga sartina. La mia infanzia l’ho vissuta in casa, nella parrocchia Chiesa Madre di Sava (Ta), intitolata a San Giovanni Battista, e a scuola elementare, dopo aver frequentato l’asilo presso l’Istituto delle Suore Vincenziane, da noi chiamate le “Suore bianche” per distinguerle dalle Salesiane di don Bosco, chiamate “Suore nere”. Ho frequentato assiduamente la parrocchia e sono stato inserito nell’Azione Cattolica, tra i chierichetti, e nel gruppo dei “pueri cantores”. Il parroco si chiamava don Florenzo Saraceno e il viceparroco don Giuseppe Papadia. L’ambiente ecclesiale era caratterizzato, oltre che dal culto ben animato dal canto, dall’associazionismo e dal catechismo che mi ha portato alla prima comunione e alla cresima. Ebbi esperienze comunitarie nelle “colonie” estive, che il vescovo curava in un grande istituto nella zona balneare di Campomarino facente parte del Comune di Maruggio, affidandoci all’opera educativa delle Suore Oblate di Nazareth, da lui istituite. Ero un ragazzo sereno ed impegnato come altri ragazzi della mia età.


Ma come è giunto alla vocazione? Se ricorda qualche dettaglio, qualche episodio, un evento in particolare, che è stato poi alla base della scelta di cominciare un percorso formativo in seminario?

Dopo la quinta elementare, il viceparroco don Giuseppe, in un pomeriggio, quando mi recai in parrocchia per incontrarmi con i compagni, ero ancora solo, mi chiese: “Giovanni vuoi entrare in Seminario?”. Si aprì così un dialogo vocazionale.
Nel mio animo erano sempre presenti le figure di don Florenzo e di don Giuseppe: mi attiravano per quello che facevano, soprattutto quando celebravano la santa Messa e predicavano. Spontaneamente risposi a don Giuseppe, dopo aver chiesto cosa fosse il Seminario e cosa si facesse: “Sì, voglio andare”. Don Giuseppe mi indirizzò all’arciprete don Florenzo. Questi mi indicò la via da seguire per entrare in seminario. Mi disse: “Vai da Gesù dinanzi al Tabernacolo” e chiedi: “Gesù, ma tu vuoi che io entri in Seminario?”. Dopo una novena di “adorazione eucaristica”, tornai dall’arciprete per riferirgli quello che era avvenuto in me.
Entrai così nel Seminario diocesano di Oria nel 1954, e mi accolsero gli educatori, i Padri della Missione o Vincenziani, ai quali proprio in quell’anno il vescovo volle affidare il Seminario.


In breve, se può riassumere gli anni della formazione spirituale e teologico-culturale in Seminario! Ha avuto momenti di ripensamento e di difficoltà? In caso affermativo, se ce ne può parlare, come li ha superati?

In Seminario mi sentii subito come nella mia famiglia. Crescevo nell’impegno della preghiera, dello studio, della fraternità. Era una comunità di circa 60 ragazzi e preadolescenti: di scuola media e di ginnasio. Dovetti faticare non poco per vincere la timidezza, nonostante l’apprezzamento che ricevevo nel gruppo dei cantori, specie quando mi affidavano la parte di solista. La difficoltà più forte che si presentò, dopo la terza media, fu quella economica. Non si trovò più chi potesse aiutare papà per pagare la retta mensile. Non mi rassegnai. Mi rivolsi all’arciprete, il quale mi disse di scrivere al papa Pio XII. Accolsi il suggerimento, scrissi al Papa sotto indicazione di don Florenzo. Mi venne, però, l’idea di incontrare il mio vescovo Alberico Semeraro. Dopo una serie di peripezie, riuscii ad incontrarlo nel suo vescovado. Mi accolse, mi rasserenò dicendomi: “Continuerai a frequentare il Seminario, però dovrai molto impegnarti”. Dopo il Seminario Minore, passai al Maggiore di Molfetta (1959), per il Liceo e la Teologia. Qui crebbi sotto la guida di esperti, educatori e professori. Il rettore era mons. Giuseppe Carata, negli ultimi due anni mons. Mario Miglietta. La crisi vocazionale più forte la ebbi al terzo liceo. Dubitavo circa la mia retta intenzione; mi turbava il fenomeno di tante uscite di amici, che ritenevo più bravi di me, i quali abbandonavano il cammino vocazionale. E allora mi chiedevo: “Ma io vado avanti per inerzia o perché mi sento chiamato da Gesù?”. Era il tempo delle Quarant’Ore eucaristiche (1962). Mi prostrai davanti a Gesù eucaristia, solennemente esposto nella cappella maggiore del Seminario, piansi sino a ritrovarmi con la testa poggiata sul braccio destro, mentre invocavo una risposta da Gesù alla mia domanda: “Signore, sei tu che mi vuoi sacerdote?”.
Nel mio animo, avvertii come una voce che stabilì con me un dialogo. Gesù: “Ma tu, credi in me? Ma tu, mi ami? Ma tu, ti fidi di me?”. Io risposi: “Certo, Signore, io credo in te! Certo, Signore, io ti amo! Signore, io mi fido di te!”.
Così mi rimisi in piedi, continuai nel mio impegno, fidandomi sempre di Gesù.


Veniamo alla sua ordinazione sacerdotale! Quando è avvenuta, quali i ricordi del tempo, quali le persone verso cui nutre sentimenti di gratitudine?

Fui ordinato sacerdote il 30 agosto 1967 nella Cattedrale di Oria dal mio vescovo, mons. Alberico Semeraro, insieme col mio amico il diacono Antonio Di Punzio. Ero accompagnato dai miei cari, dai sacerdoti e seminaristi della diocesi, da tante persone che mi conoscevano, spiritualmente dalle Monache Clarisse e Benedettine di Manduria. Vissi il rito di Ordinazione con l’animo ripieno di gioia e di riconoscenza verso il Signore che continuava a dirmi: “Fidati di me!”.
Di quella bellissima celebrazione non ho un ricordo fotografico perché vigeva la proibizione di scattare foto.


Nel corso degli anni ha maturato sempre più l’autoconsapevolezza della sua identità di sacerdote?

Posso rispondere affermativamente. Questo lo devo all’essermi posto sempre nelle mani di Dio, nell’essermi fidato di Gesù che, quotidianamente, accolgo nelle mie mani dopo la consacrazione elevandolo insieme con il calice verso l’alto e invocando: “Padre misericordioso, per il Corpo e il Sangue preziosissimo, del tuo Figlio, abbi pietà di me e di tutto il genere umano!”. Mi vedo sull’altare come sul calvario e nel cenacolo; e parto da questi luoghi per esercitare il ministero che mi è stato affidato, nell’obbedienza della fede, per donarmi a quanti incontro e mi incontrano. Le mie fragilità, i miei limiti, i miei errori li porto a Gesù nel sacramento della Riconciliazione e, da lì, riprendo con gioia e fiducia il cammino che mi è stato tracciato dalla Divina Volontà.


Quali gli incarichi ricevuti fino alla chiamata all’episcopato?

I primi dieci anni di ministero presbiterale li ho vissuti come “educatore” nel Seminario Minore Diocesano di Oria; nel Seminario Minore Regionale di Taranto: tre anni come “animatore” e tre anni come “pro-rettore”. Per cinque anni ho servito la diocesi di Oria accanto ai vescovi Alberico Semeraro, Salvatore De Giorgi, Armando Franco, come segretario della pastorale e in altri servizi come quello di assistente delle Confraternite, coordinatore spirituale dei Cursillos, assistente delle Religiose della Diocesi. Per otto anni e sei mesi ho servito come arciprete-parroco la parrocchia SS. Trinità in Manduria sino alla partenza per Cerignola-Ascoli Satriano.


Oggi è vescovo con tanta esperienza di pastore maturata in due diocesi, in quella di Cerignola-Ascoli Satriano e successivamente in quella di Trani-Barletta-Bisceglie. Come tratteggia oggi il sacerdote?

Durante il ministro episcopale, nove anni nella diocesi di Cerignola-Ascoli Satriano e quasi diciotto nell’arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie, ho incontrato innumerevoli presbiteri, ciascuno caratterizzato da una personale storia di fede e di vicende umane. Ho accolto e accompagnato al sacerdozio circa 85 giovani ordinandoli presbiteri diocesani e ho ordinato circa 30 presbiteri religiosi nelle due diocesi.
Il sacerdote ministro è chiamato da Dio per servire il suo popolo nella persona del Signore Gesù, unico sommo eterno sacerdote della nuova alleanza. Il presbitero non si appartiene, perché come dono del cuore di Cristo appartiene al popolo a cui è destinato. La sua identità è contraddistinta dal “carattere” sacramentale dell’Ordine sacro. Per cui il suo agire, sotto l’azione dello Spirito Santo è quello stesso di Gesù Cristo: pastore bello e buono del popolo; mite, compassionevole, misericordioso; disposto a dare la sua vita per la salvezza del gregge; ponte che congiunge Dio all’uomo e l’uomo a Dio. Il sacerdote ministro, come segno di contraddizione in mezzo al mondo, deve coltivare la sua conversione seguendo il suo Signore, Gesù Cristo, sino al “calvario” e sino a farsi “nutrimento” di vita eterna. Egli è lo “stesso Gesù”. La Messa è il fondamento, il centro, il culmine di tutta la sua vita terrena, vissuta con gli uomini, in mezzo a loro, come maestro-santificatore-pastore. La Strada è la ricerca delle anime, le più traviate e disperate.


E quale è lo spirito con cui si accinge a celebrare il suo 50° di ordinazione sacerdotale?

Intendo celebrare il giubileo d’oro della mia ordinazione sacerdotale con “rendimento di grazie” alla SS. Trinità; con supplica umile e sincera alla Divina Misericordia per tutti i “vuoti in amore” verso Dio e il prossimo, con invocazione della “grazia” di cui ho bisogno per perseverare nel cammino che mi porta là dove il Signore vuole condurmi. E, per questo, chiedo la preghiera di tutti coloro che mi conoscono e di tutta la Chiesa diocesana, unendosi a me nella celebrazione della santa Messa il 30 agosto p.v. nella Basilica Cattedrale di Trani; e negli altri incontri celebrativi secondo il programma, che ho voluto pianificare in prima persona.


Si sente di porgere un messaggio ai suoi sacerdoti?

Carissimi sacerdoti, vi ho scritto la lettera “Cinquant’anni di servizio d’amore alla Chiesa come educatore, parroco, vescovo”, esortandovi a “Rimanere nell’amore di Cristo”.
Questo sento di potervi dire: “Amiamoci come Gesù ci ama, chiamandoci ad essere in lui il presbiterio dell’Arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie!”. Vi porto nel cuore sino al compimento dell’amore; anche voi pregate per me, perché viva nel Divino Volere.


A conclusione, vuol parlare di qualcosa cui tiene ma che, finora, non ha potuto dire perché non le è stata ancora posta la domanda?

Parto dall’Arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie, per inserirmi nella mia diocesi di origine, Oria, dimorando nel mio paese natio, Sava, con un “sogno” che vagheggio, chiedendo al Signore di poterlo realizzare: adoperarmi a far tornare la presenza delle persone consacrate a Sava. Mi spiego. A Sava, erano presenti i Frati Minori francescani che hanno creato opere di carità; le Suore Figlie della Carità di S. Vincenzo e di S. Luisa de Marillac che hanno educato generazioni di bambini e fanciulle nell’associazione “Figlie di Maria”, ed hanno avuto cura dei poveri aiutando le “Dame di Carità”; le Suore Figlie di Maria Ausiliatrice, benemerite per la scuola materna ed elementare parificata. Ora, Sava, è sprovvista della preziosa presenza della Vita Consacrata. Vorrei, con l’aiuto di Dio e con la cooperazione dei fratelli e sorelle, impegnati nelle associazioni e nel volontariato, sostenuto dal Vescovo diocesano e dalle Autorità civili, istituire una “Casa della tenerezza” in un luogo significativo della città e affidata ad una comunità di Vita Consacrata, sorretta da me, dai sacerdoti della Città, dal Volontariato. Sarebbe un miracolo! Per questo chiedo la preghiera della bella Chiesa diocesana di Trani-Barletta-Bisceglie che mi porto nel cuore.
Grazie!


(A cura di Riccardo Losappio)